Lingua e dialetto: tra canzone e poesia romanesca. Domani sera a Casalbertone
di Marco ABBONDANZIERI
Se pensiamo a Rugantino, ci troviamo a rivivere Roma in piena età papalina; con Fregoli torniamo ai tempi della Belle Epoque. Con “Roma Capoccia” di Venditti, invece, siamo ricatapultati all’ormai storico Folk Studio. Tre epoche diverse ma un unico luogo: Roma. Un’unica lingua, dunque, perché un dialetto quando diventa storia e lascia dietro sé quello che ha lasciato il “romanaccio”, di lingua ci piace parlare.
Dagli scritti di “Cronica d’anonimo romano” del ‘300 fino a “Roma capoccia” di Venditti, passano 700 anni, sette secoli durante i quali Roma ha visto passare sulle sue strade papi, re, imperatori e tutta una serie di personaggi più o meno famosi.
I vicoli della città eterna e i grossi agglomerati urbani che ormai si estendono ben oltre “le mura” e ormai lontani anche da “Fori porta” sono e sono stati testimoni oculari di avvenimenti che diventano storia, la stessa che occupa buona parte dei libri di testo specializzati in tale materia.
A Roma si è concretizzata una ridda di eventi che hanno sia positivamente che negativamente cambiato il volto alla città in primis, ma anche alla nazione e al mondo intero.
La presenza del papato prima, centro della cristianità, e successivamente il ruolo di capitale d’Italia, hanno fatto di Roma e del suo popolo un elemento cosciente delle proprie capacità e del suo ruolo fondamentale nelle decisioni, anche quelle estreme.
Insieme a tutto ciò poche comunità hanno testimoniato con scritti, raffigurazioni, e soprattutto con forme d’arte come la poesia e la canzone, le trasformazioni e i fatti di una città, e cantato e raccontato i suoi pregi e i suoi difetti.
Tutto questo con una lingua quasi sempre in evoluzione, che ha mantenuto una costante radice, senza mai cangiare troppo o senza stravolgere completamente la propria natura irriverente. Le “pasquinate”, gli “stornelli” e i moderni “rapper”, passando per Sor Capanna e Stefano Rosso mantengono una vena di sarcasmo come i versi del Belli e quelli ancora più profondi di Sallustri.
Prelati, nobili, più o meno blasonati, popolani, guardie e ladri sono stati sempre bersaglio di questa vena romana, forse la presenza e la permanenza dei poteri forti che da sempre abitano a Roma ha dato ai suoi illustri cittadini la consapevolezza di essere custodi di un sapere e di una serie di misteri che, se svelati al resto del mondo, potrebbero cambiare le sorti del genere umano.
I segreti del Vaticano e del Viminale sono ormai argomento noto di discussione come lo sono le trame oscure dei vari banchieri, banditi e uomini di governo ormai accomunati da un solo destino.
Anche qui i nostri poeti e cantanti non hanno fatto sconti a nessuno, come del resto i nostri cineasti.
Ma la canzone e la poesia romana non sono solo questo, serenate e “canzoni belle e appassionate” per dirla come Petrolini sono l’altra faccia di una città che ha mantenuto il buon umore e il sentimento alto anche nei momenti peggiori.
“Nunziata” che viene chiamata dall’amato alla finestra non è altro che uno dei momenti più alti della canzone popolare. I barcaroli a cui “Riassomma er viso de Ninetta bella”. La “Gente de borgata” raccontata da uno che di Roma non è, ma viene dal sud, definendosi un bastardo e che narra la sua città di adozione forse meglio di chi è romano, le “Ballate Rap” scandite con un linguaggio ormai quasi incomprensibile ai romani D.O.C., sono la testimonianza di una evoluzione culturale che passa per tutte le discipline del linguaggio, dalla canzone alla poesia.
Parole come “Ciumachella” e “Core adorato” sono ormai in disuso nel lessico popolare, ma sono però riproposte con termini nuovi, tanto da riempire ancora l’etere ed essere “pompati”, per usare un termine nuovo di zecca, dagli altoparlanti delle macchine che sfrecciano dal centro alla periferia e viceversa.