Mirò, materialità e metamorfosi
di Giuseppe MASSIMINI
Palazzo Zabarella a Padova ospita la straordinaria collezione del maestro catalano conservata nella città di Porto
Palazzo Zabarella, nel cuore di Padova, ospita in prima mondiale la mostra, “Joan Mirò: materialità e metamorfosi” (a cura di Robert Lubar Messeri, fino al 22 luglio). Promossa dalla Fondazione Bano insieme al Comune di Padova, riunisce 85 opere tra quadri, disegni, sculture, collages e arazzi tutti provenienti dalla straordinaria collezione del maestro catalano, conservata nella città di Porto e di proprietà dello stato portoghese.
In tutta la sua vita Mirò (Barcellona 1893 – Palma di Maiorca 1983) ebbe l’istinto della libertà soprattutto nei confronti delle poetiche e delle mode dell’arte del tempo. I suoi primi interessi vanno all’impressionismo e al fauvismo. Sfiorò soltanto, senza farsene un problema, il cubismo; sostò più a lungo nell’area del surrealismo con Breton, Max Ernest, Masson. Ma fu soprattutto attratto dalla cerchia dadaista di Tristan Tzara. Quando si convertì al surrealismo, intorno al 1924-25, maturò il suo linguaggio più tipico slegato da ogni desiderio di rappresentazione e sempre più indirizzato verso un astrattismo lirico raggiunto attraverso pochi ma calibrati segni grafici, deformazioni fantastiche e fortemente evocative di elementi naturali immersi in colori vivi ed elementari. A partire dal 1935 dilatò progressivamente i propri segni fino a renderli più evidenti, indisciplinati e talora “selvaggi” dominati dalla cupa brillantezza dei neri, cui rispondono i rossi luminosi e gli accordi timbrici degli altri colori.
Alla fine degli anni trenta dopo un soggiorno a Parigi, dove arriva nel 1919, ritornò in Spagna e si stabilì tra Barcellona e Palma di Maiorca; in quegli anni realizzò “Le costellazioni” che sono tra le sue invenzioni più poetiche. Il percorso della mostra copre un periodo di sei decenni della carriera di Mirò, dal 1924 al 1981. Si concentra in particolare sulle trasformazioni dei linguaggi pittorici che l’artista catalano iniziò a sviluppare nella prima metà degli anni 20. Si esplorano tutti gli aspetti conosciuti del suo lavoro approfondendo in modo particolare “l’importanza della materialità come fondamento della propria pratica artistica”. Spiegò in un’ intervista del 1959: “Se aggredisco un pezzo di legno con una sgorbia questo gesto mi mette in un determinato stato d’animo. Se aggredisco una matrice con una matita litografica, o una lastra di rame con un bulino, gli stati d’animo che ne derivano sono diversi. L’incontro con lo strumento e con la materia produce uno shock che è cosa viva e penso si ripercuoterà sull’osservatore”.
La sua ansia di sperimentare lo ha portato in settant’anni di attività artistica a utilizzare diversi supporti come la tela (montata su telaio o meno, strappata, logorato, perforata), diversi tipi di carta da parati, pergamena, legno ma, anche vetro, carta vetrata, iuta, sughero, rame, e alluminio”. In questa esplorazione della materialità lo vide eguagliato forse solo a Paul Klee; ma un’altra sua guida ideale fu certamente Picasso. Certamente Mirò fu un artista straordinario. Un maestro di una spontaneità assoluta che ha saputo allargare “in maniera decisiva i confini delle tecniche di produzione artistiche del XX secolo” e che più di altri è riuscito a ritrovare il senso puro ed autentico del fantastico.