Marco Diaco, l’infinita poesia della materia
di Giuseppe MASSIMINI
Un’antologica dell’artista al Museo Civico Mastroianni a Marino. Dal 2 al 10 aprile
Che Marco Diaco sia un pittore schivo credo che nessuno possa negarlo, così come non si può negare che sia un pittore pieno di talento. Il suo cammino si è svolto sempre con profitto e in continuo approfondimento anche se a volte con fasi apparentemente discordanti. Ma quello che era essenziale per lui non lo ha perso per strada. Anzi con forte attenzione autocritica ha saputo ricapitolare e approfondire tutte le precedenti esperienze. Ha riguardato all’arte del Novecento con una verve poetica del tutto insolita mescolando in maniera originale e unica i riferimenti alla nostra tradizione classica e alle avanguardie storiche con un taglio del tutto originale e di una leggerezza poetica figlia non solo dell’informale europeo ma anche dell’antica grammatica mediterranea. Conosco Marco Diaco da molto tempo da quando, da giovane critico, visitai una sua mostra a Roma al Centro d’Arte Albore. Era agli inizi della sua attività. Si muoveva nell’alveo della Scuola Romana. Del resto, come si legge nella sua biografia, i suoi maestri erano Alberto Ziveri e Virgilio Guzzi. Da allora ci siamo incontrati spesso e ho seguito con molta attenzione l’evolversi della sua pittura. Mentre scrivo ripenso ad una delle tante conversazioni con Marco quando mi parlava delle sue continue esperienze. Ricordo soprattutto la sua semplicità e la sua forza nell’affrontare nuove sfide soprattutto quando arriva il momento di affiancare alla pittura la sua professione di architetto. Un traguardo ambizioso ma pienamente riuscito.
La mostra, Marco Diaco. Opere dal 1969 al 2022 (dal 2 al 10 aprile), ripercorre con una trentina di lavori i motivi e le scelte che hanno fino ad oggi segnato tutto il suo percorso. Prende avvio dalle vedute di Roma e di Venezia, passando per i nudi e le nature morte, e prosegue con le opere di forme geometriche che determinano il superamento della prima esperienza figurativa. Alla fine degli anni Ottanta arriva la svolta decisiva. Guarda verso nuovi orizzonti e si rimette in discussione. Prova interesse per la grande lezione di Lucio Fontana e di Alberto Burri , senza dimenticare l’astrazione lirica di Georges Mathieu e la tecnica del dripping di Pollock, e avvia un ciclo di opere che esaltano il segno, la materia, il colore. Un’altra stagione prende il passo: elegge nuove note di colore, dal grigio di sottofondo impastato di sabbia, al nero stinto, al bianco neutro per accentuare al massimo la cromaticità, senza disperdere quella intensità materica, punto di raccordo di tutto il suo lavoro. Sul retro di una tela si legge Informale organico: è il titolo dell’opera che insieme ad altri titoli, sono capitoli di un grande diario, testimone fedele di tutta la sua pittura: ora abitata da vigorosi colpi di pennellate, ora lievitata in massima parte da tonalità scure attraversata da lampi di luci, ora impastata con scabre tonalità che tocca vertici monocromatici di grande eleganza.