Gabbo, il ricordo eterno e l’impossibile relatività del perdono
di Arianna MICHETTONI
Al mattino ogni nuovo giorno si somiglia: le ore sono una sequela di facce note e luoghi da raggiungere, impegni da prendere, accordi da rispettare, raccomandazioni. Al risveglio ogni uomo si somiglia: ha già progetti per il futuro, questo o quello da realizzare, e persone da salutare prima di uscire con la promessa di tornare. Chi ha il lavoro, chi ha la scuola, chi ha la colazione al bar, chi ha la trasferta della propria squadra del cuore: ma a tutti sottostà, come una linea sottile su cui tenere in equilibrio un’esistenza, lo stesso diritto. Il diritto a vivere ed invecchiare, a perdere il conto degli attimi vissuti e a non ricordare più le esperienze passate, scalzate dal presente e dalle prossime aspettative. Invece, per uno scherzo del destino – che disegna una traiettoria crudele e beffarda, quella del trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato – da quell’11 Novembre 2007 mai più i giorni sono stati uguali a se stessi per Gabriele Sandri e Luigi Spaccarotella, vittima e artefice di un volere che altrimenti è solo divino: il togliere la vita e consegnare l’innocenza ad un giudizio che, in ogni caso, non potrà lavare via questo peccato originale del mondo del calcio. Pur con l’espiazione collettiva, perpetrata nel ricordo vivido e commosso del sentimento umano che non ha alcuna distinzione o preferenza e rende davvero tutti uguali. Triste che sia la morte a risvegliare una coscienza sopita da futili differenziazioni; ancor più triste è che il perdono debba essere condizionato da un ruolo sociale e che la colpa, per estensione, sia ricaduta sul tifoso qualsiasi con misure restrittive. Il tifoso stesso trattato come entità unidimensionale non in grado di sentire, volere, sperare: agli occhi altrui non è che un grido di battaglia privo di profondità sonora, quasi fosse un concetto astratto e perciò da conformare forzatamente in un mondo di materiale concretismo. Non c’era quindi spazio per Gabriele in questo confine stretto e quasi soffocante, passeggero scomodo di una strada divenuta improvvisamente – con la velocità con cui si spara un colpo di pistola – eterna: lui, che dalla commistione tra Lazio e musica ne ricavava un appassionato attaccamento alla vita, mentre stava con gli occhi ancora chiusi a recuperare un sogno che lo ha tenuto sveglio di notte. È un ricordo assai speciale, uno scatto rubato che mai però potrà restituirne degnamente l’immagine: alla famiglia e agli amici sarebbe infatti bastato il normale, privo di morali smorzate dal clamore – l’ordinario disputarsi di una partita che è un gioco in cui si vince, si perde e si pareggia; si odia, si ama, ma non si muore: non si muore di troppo amore. Passano gli anni e si alternano le stagioni, i chilometri percorsi da Gabbo si sono fermati, interrotti da un caso ormai archiviato; la Lazio di Gabriele a volte stona e lui ci soffia un po’ sopra, a voler mixare i colori della maglia ai colori del cielo: ne risulta una nuova versione dove, ad ogni 11 Novembre, siamo tutti un po’ diversi dall’ordine prestabilito di un mattino che non somiglia a nessun altro. Mai più 11 novembre.