Lucas Leiva, cosa sei e dove sei: alla Lazio per vincere
di Arianna MICHETTONI
È alto più o meno così, ha quel fisico che ne leggi il nome sulle spalle e annuisci consapevolmente, è biondo, ha gli occhi azzurri, gioca a centrocampo. Una descrizione da “o l’uno o l’altro”, che sembra quasi che ci sia un destino – e un destino c’è, invero, lazialissimo destino. L’uno o l’altro, quindi: l’uno, che lo sguardo lo ha spesso spento o nascosto da un velo di lacrime; l’altro, che dopo aver rimediato di giustezza – prendendo palla eh! – all’offensiva di Cuadrado, composto ed impeccabile acconcia il ciuffo – quanto conta avere delle priorità, nella vita.
L’uno, che della Lazio è stato capitano ma “anche no, forse si, va bene accetto così poi resto, invece non voglio restare, valuterò, mediterò” ad un Inzaghi ed una tifoseria attonita – inspiegabile davvero, questo voltafaccia; spiegabile, davvero, dal mai (di)mostrato senso di appartenenza; l’altro, che dopo una carriera al Liverpool, in una scrollata di spalle è già ad Auronzo a far serata con i nuovi compagni – conquistandoli carismaticamente proprio tutti, tanto che a guardarlo si pensa che accidenti, è qui, neanche il tempo di annunciarlo che è già qui, è arrivato Lucas Leiva.
La dualità è quasi elemento fondante dei biancocelesti: la Lazio sa quel che è e soprattutto, di carattere e caratteristiche, quel che non è. E proprio non è squadra di rim-pianti, pretese ed isterismi: non uno è calcisticamente sopravvissuto alla debolezza di spirito, se affrontata dalla forza dei laziali – che è come un banco di prova per sognare in grande (o in piccolo, se non si è all’altezza della forza dei sogni).
Andar via dalla Lazio per vincere o venire alla Lazio per vincere: l’uno o l’altro, ennesima dicotomia. Tutto è in perfetto equilibrio su questa connotazione biunivoca, perché, se al destino ci si riferiva poc’anzi, è evidente che anche l’impegno e la lungimiranza sono qualità che o si hanno, o non si hanno – è questione di bivio.
Non vi è nulla di più patetico che inveire al cielo o alla terra – al campo – se tutto quel che sta intorno ricorda che ognuno è artefice della propria sorte: si può scegliere di piangere al termine di una partita, piangere di contentezza o disperazione, certo, ma sulle proprie gambe, sui tacchetti che si muovono per l’area, che non esiste nessun altro a decidere l’esito se non una buona (o cattiva) giocata personale. Ed ecco spiegato allora come l’uno la finale l’abbia persa e l’altro la finale l’abbia vinta. Entrambi nello stesso tempo e con la stessa maglia, eppure: venti, venti di tempesta, venti seminati e raccolti poi in panchina; e sei: Lucas Leiva, cosa sei e dove sei; la colonna portante del centrocampo laziale e sì, è lì che sei, nel cuore dei tuoi nuovi tifosi – lì dove uno non è mai stato.