Intervista a Claudio Di Pucchio: “Il calcio? La mia soundtrack”

Intervista a Claudio Di Pucchio: “Il calcio? La mia soundtrack”

La vita di Claudio Di Pucchio, come in un film da Oscar, è accompagnata a braccetto dal calcio. Una costante che domina da sempre nella mente di un personaggio emblematico di un periodo ormai lontano e dimenticato.

L’enciclopedia dei ricordi si apre con naturalezza dinanzi ad un buon caffè in Piazza Santa Restituta a Sora. Il mister accende una sigaretta e con la sua conclamata pacatezza parte nel viaggio del passato. Partendo dall’infanzia: “Il gioco del calcio è stato la colonna sonora della mia esistenza intorno alla quale ho creato le altre cose. Una passione naturale, quasi ovvia per la società in cui vivevo. Ho avuto la fortuna di poter sfogare tale passione in tanti anni di attività. Da bambino, parlo dell’immediato secondo dopoguerra, il calcio era lo sport praticato dalla maggioranza della popolazione. All’epoca le piazze e le strade erano libere da qualsiasi pericolo. Nascevano campetti sotto ogni abitazione. Bastava una palla di pezza o di camera d’aria di biciclette per divertirsi. Certo, un paio di scarpe alla settimana si rovinavano e i costi per le nostre famiglie lievitavano. Pensa che sono nato quando ancora esisteva il Regno d’Italia. Da ragazzino frequentavo l’oratorio ‘Giosuè Borsi’ dove si svolgevano tornei calcistici. Veniva poi formata una squadra che partecipava al torneo Interdiocesano. Arrivammo primi e contemporaneamente sbarcò al Sora l’allenatore Grigoli. Un tecnico che ricordo con estremo piacere per le sue qualità didattiche. Lui stesso organizzò un torneo giovanile in città chiedendo a noi dell’oratorio di partecipare. Il prete Don Dino non era contento della strada che stavamo prendendo. Decidemmo allora di organizzarci in autonomia indossando la maglia con una stella azzurra sul petto. Al termine della competizione Grigoli tesserò me ed altri sette ragazzi di cui molti hanno giocato in Prima Squadra come Alviani, Fornari, Conflitti, Forletta. Era l’estate del 1960. Appena compiuti sedici anni ci fu l’esordio in Prima Squadra. Nel frattempo vincemmo il campionato Juniores. Nel finale di stagione (1960-1961) giocai anche in Prima Divisione con la seconda squadra. Grigoli si mostrò soddisfatto e decise di portarmi in pianta stabile con i grandi. In quel periodo non esisteva alcuna disposizione federale che potesse favorire il debutto dei giovani. Il ragazzo giocava solo se e quando meritava andando a confrontarsi con gente esperta. Bisognava affrontare pure lo scetticismo dell’ambiente esterno. L’esordio avvenne in una trasferta a Tivoli. Debuttammo io e il terzino Conflitti. In porta Berardi sostituì il titolare. Sfidammo tutte le perplessità e vincemmo 2-1 con una brillante prestazione. Da sottolineare che a fine partita fummo presi a sassate dal pubblico locale. Un successo fuori casa poteva costare caro anche per la propria incolumità”.

Il talento in rampa di lancio inizia a stuzzicare l’appetito dei sodalizi professionistici. “Il primo anno venne a Sora la Tevere Roma che partecipava alla Serie C. Io entrai nel secondo tempo e feci due reti nel ruolo di trequartista. L’allenatore ungherese dei capitolini Boldizsàr voleva subito prendermi. Mio padre si impose e disse che fino alla laurea io non sarei mai andato via. Trovammo un compromesso, cioè fino al diploma. Conciliare lo sport con lo studio non era un’impresa semplice. Le stesse società avevano una predisposizione diffidente verso gli studi. Successe così ad Avellino, Chieti e San Benedetto dove le rispettive dirigenze non volevano che si disperdesse tempo per l’Università. Il secondo anno a Sora non fu buono. Grigoli se ne andò e io ebbi delle difficoltà nel rapportarmi con lo spogliatoio e l’ambiente cittadino. Non volevo più allenarmi, fino a quando venne organizzata una amichevole con la Fermana in cui giocava Orlandi. Lui mi esortò a fare la partita. L’allenatore giallo-blu era Corrado Viciani, il ‘Maestro’ del gioco corto. Al culmine Viciani era entusiasta di me. A quel punto ci fu il risveglio dei sorani nei miei confronti. La stagione successiva fu ottima. Feci l’esordio nella Rappresentativa Laziale. Fummo eliminati dalla Sicilia ai rigori al ‘Signorini’ di Napoli. Ogni settimana bisognava quindi andare a Roma, con enormi sacrifici. Partimmo con in panchina Tanzilli sostituito poi da Ghiggia. L’anno dopo fu fatta una squadra sulla carta debole ma che raggiunse il terzo posto, lottando con Omi e Formia per la leadership del girone. Mister Giuliano mi spostò sulla linea mediana da metodista. Mi diplomai al termine del campionato. Cominciò a seguirmi la Lazio. Qui apro una digressione che pochi conoscono. Nel 1968 il Sora si trovava senza Presidente a causa dell’addio di Sor Antonio Annunziata in rotta con la tifoseria. Il giocattolo costruito venne affidato al Senatore Senese in qualità di commissario. Il Senatore era un calciofilo e tifosissimo del Sora e della Roma. Si dilettava in disquisizioni tecniche. Ai tempi della Lazio spesso ci si confrontava nel tragitto dalla capitale a Sora. Veniva a vedere con interesse le partite della Primavera biancoceleste. Gagliardi era il suo preferito. Quando si trattò di formare la squadra bianconera portammo svariati giocatori dalla Lazio come lo stesso Gagliardi, il promettente libero Volpi, lo stopper Vuerich, Oddi ed il portiere Girardi. Feci prendere pure Galimberti dal Monza e Recagni. Un dream team che strabiliò in Serie D”.

Il passo decisivo, però, arriva con il trasferimento in Irpinia. “Sarò sempre grato alla società del Sora, con a capo il Cavaliere Sirio La Pietra, che mi diede l’opportunità di coronare l’aspirazione di giungere ad alti livelli. Avevo frequentato con costanza Roma sentendo voci negative sul trattamento riservato ai giovani nella Lazio. Pensai che un salto dalla Promozione alla Serie A sarebbe stato eccessivo e optai per il passo intermedio di Avellino. Mi trovai davvero bene e fui convocato nella Nazionale di Serie C. In estate (1965) il Presidente, su suggerimento di Sibilia, mi annunciò che la mia cessione sarebbe avvenuta dopo un altro anno. Dovevo però svolgere una preparazione fisica particolare in Veneto con il Prof. Trulla. In effetti ero gracile e mingherlino. Tornai a casa due settimane prima della conclusione del campionato. Al momento della partenza non volevo più andare. Per tutta risposta l’Avellino chiuse la trattativa con il Chieti, che rivendicava soldi per il trasferimento di due giocatori l’anno prima. Tornò poi alla carica la Lazio. C’era la concorrenza del Varese e del Cagliari di Scopigno. Ci tenevo a non perdere il rapporto con la mia terra e scelsi i colori biancocelesti. Nella capitale mi resi conto dell’incapacità nel gestire i ragazzi una volta usciti dalla Primavera. Il Settore Giovanile era gestito da addetti competenti come Flamini. Poi nascevano i problemi. Nel 1966-1967 feci una sola apparizione tra i grandi all’ultima giornata contro la Juventus. Perdemmo 2-1 e segnai su rigore. Purtroppo retrocedemmo in B. Partito da titolare fui però ceduto in prestito alla Massese per la troppa discontinuità causata dalla chiamata al Servizio militare. Intanto alla Lazio era arrivato il mister argentino Lorenzo. Lui disse che aveva trovato un talento come De Sisti alla Roma e se avessi seguito i suoi insegnamenti sarei diventato il nuovo Suarez. Avevamo una rosa ampia di 28 giocatori e diventava complicato farsi largo. Con Lorenzo i rapporti furono positivi a lungo. A marzo entrai in crisi. Si aprì un affare con la Sambenedettese per il passaggio di Sulfaro in biancoceleste in cambio del sottoscritto. Una stagione eccezionale con un epilogo non all’altezza rispetto all’andamento abitudinario per sopraggiunte criticità societarie. Fui premiato come migliore giocatore del gruppo B di Serie C dal giornale ‘Stadio’. Al rientro alla Lazio c’era la possibilità di rimanere o di approdare in B con Atalanta, Pisa o Venezia. La mattina dopo la chiusura del mercato, convinto di rimanere, lessi della cessione in prestito all’Alessandria. Litigai con il Ds laziale Galli, genero di Viani. Da Alessandria mi chiavano ogni giorno, ma io non volevo saperne. Fu di fatto Sassaroli ad esortarmi a raggiungere il ritiro di Ponzone Biellese. Andai il 16 agosto 1970 senza nemmeno i bagagli. Rimasi due anni. Un paio di anni in agrodolce in cui divenni capitano. Il patron mi riscattò totalmente. Nel 1972 decisi di sposarmi e volevo stabilità. Il Presidente Remo Sacco mi considerava come il quarto figlio. Era un imprenditore e doveva monitorare dei cantieri sulla autostrada Salerno-Reggio Calabria. Viaggiai da Piacenza in macchina con lui che cercava di convincermi con promesse importanti. Non volevo rinunciare al mio paese. Ho lasciato molto anche lì”.

Il giro nell’Italia del pallone continua con il ritorno alla Massese nel 1972. “Dopo l’Alessandria firmai per la Massese, con la trattativa portata avanti da un rampante Moggi. Tengo a precisare che ho sempre mantenuto buonissimi rapporti con le società in cui ho giocato. Stesso discorso per gli arbitri. L’unica eccezione era Menicucci di Firenze che come una tassa mi ammoniva tre volte e mi squalificava per una giornata. Mia moglie si era laureata vincendo un concorso magistrale ed io fremevo per raggiungerla. Andai a Salerno dove guadagnavo 750.000 lire al mese più un appartamento con un contratto biennale, mentre mio padre ne prendeva 60.000. Lasciai tutto e a Novembre tornai a casa”.

La nostalgia per la famiglia e gli amici non può più essere ignorata. “Messe definitivamente le basi a Sora, dopo cinque turni mi feci male all’ernia del disco. Durante i quattro mesi di stop vinsi due concorsi, al Banco Roma di Ancona e all’Ospedale di Sora. Scelsi la seconda opportunità per perseguire la passione calcistica. All’alba del secondo anno la società versava in condizioni di crisi. Guido Consigli, alla maniera feudale con la spada sulla spalla, mi nominò allenatore. Consapevole degli ostacoli, accettai l’incarico. Completai un primo ciclo di sei anni, conditi da una promozione e tre campionati entusiasmanti di IV Serie. Nel 1978 tornò in ballo l’incompatibilità tra l’attività sportiva e la professione amministrativa, obiettivamente discutibile. E’ stato un calvario e fui costretto a lasciare il lavoro”.

La mente ed il cuore portano solo a Sora. “Le radici hanno accompagnato i miei viaggi. Ricordo quando andammo con l’Alessandria a Parma e nel post-gara chiesi a un giornalista il risultato del Sora e lui mi guardò esterrefatto. Sono cresciuto in quel tratto di gradinata dove sono nati i tifosi ‘Skizzati’ nel 1988. Andavo lì con mio padre da bambino. Ho assistito alla vittoria del campionato ’52-’53 a Fondi in un match arbitrato da Sbardella di Roma e finito 3-2 per i bianconeri. Al mio ritorno avevo voglia di affermazione non per me, ma per la città. Vedevo un paese in solitudine e staccato dalla realtà crescente lungo l’autostrada. Frosinone, Anagni, Pontecorvo e Cassino stavano crescendo mentre Sora era stata isolata. Pensai di poter contribuire ad una rinascita solo con quello che sapevo fare. L’obiettivo era di rilanciare l’immagine di Sora dal punto di vista sociale prima che sportivo. Paragonabile a ciò che oggi sta facendo la pallavolo. Però nel 1981 i soliti problemi societari bloccarono tutto. Il Presidente Fiorini accusava 120 milioni di debiti. Ci fu la riforma dei campionati. Nel nascente torneo Interregionale vari capoluoghi di provincia furono ripescati, tra cui Isernia dove c’era Pontarelli. Lui conosceva la situazione volsca e mi chiese consigli su alcuni giocatori. Alla fine comprò sette calciatori sorani proprio per 120 milioni. Io dovevo essere l’allenatore, ma non ero convinto. Venne a casa Fiorini in lacrime pregandomi di andare. Una stagione discreta. Poi rimasi fermo un anno. Pontarelli mi richiamò e vincemmo l’Interregionale a Isernia. Tornai a Sora ma sportivamente c’era il Medioevo. Nel 1987 Fiorini riprese le redini societarie. Iniziò un ciclo bellissimo. Nel 1988-1989 avevamo una formazione forte. L’apoteosi ci fu nel 1992 con la vittoria del campionato Interregionale nello spareggio contro il Sulmona. Due anni dopo altra promozione in C1 con la sfida alla Turris in quel di Perugia. Nel 1996 sfiorammo la Serie B con gli arbitri che ci defraudarono. Dopo ci fu una stagione negativa dove sbagliai io perché diedi più attenzione al supercorso di Coverciano. Ero affascinato dall’idea di aggiornarmi. Fui promosso con 110 e lode insieme ad Ancelotti. Con l’applicazione della legge Bosman molti pezzi dello zoccolo duro furono ceduti. Insomma, si materializzò l’anno orribile della retrocessione. Ci lasciammo allora con la dirigenza. Altri due campionati ad Avezzano e Frosinone per tornare ancora a Sora”.

Nel 2000-2001 il ‘Maestro’ compie un’impresa inaspettata. “Nel 1999-2000 la squadra rischiava seriamente la retrocessione in D. Riuscimmo a salvarci all’ultima giornata a Tempio. In estate il Cavaliere Annunziata era esausto. Con l’ausilio del ds Antonio Frasca facemmo una campagna cessioni prolifica. Ci rivolgemmo a società fidate per prendere giocatori in prestito e inoltre quattro ragazzi delle giovanili passarono in Prima Squadra. Il gruppo veniva dato per spacciato in un girone con corazzate come Taranto, Campobasso e Catanzaro. Questa è stata la squadra che mi ha dato maggiore soddisfazione per la crescita esponenziale, per i risultati e per la vittoria della Coppa Disciplina. Nella mia intera carriera ho cercato di trasmettere ai ragazzi la serietà di pari passo con la cultura. Ad esempio devo riconoscere a Pasquale Luiso di aver sempre sottolineato tale aspetto. L’appellativo di ‘Maestro’ mi trova d’accordo se direttamente collegato con quello di educatore. All’inizio del nuovo millennio facemmo un campionato per arrivare quinti e sfruttare la delusione di chi sarebbe venuto a fare i play-off. La preparazione delle partite con Campobasso e Catanzaro fu perfetta e il sogno divenne realtà. L’anno successivo a Dicembre il Cavaliere ‘Lillo’ Annunziata lasciò la società quando la squadra era settima. Io me ne andai a gennaio. Ad aprile gli stessi calciatori mi richiamarono e ci salvammo a Castel di Sangro. Purtroppo il contesto dirigenziale era degenerato con troppa incompetenza e malafede. A gennaio si ammalò mia moglie e dovevo pensare ad altro. Nel 2004 mi ripresentai per due settimane con una scelta irrazionale. Io non mi riconoscevo più e non mi riconoscevo con la società. Se non ci avessi provato, sarebbe rimasto il rimorso”.

La chiusa è dedicata ad una riflessione profonda, ampia e alquanto delicata sulle differenze tra il calcio di oggi e quello di ieri. “Questo è un discorso particolare. Una volta la scelta dei giocatori veniva fatta su una percentuale elevatissima di praticanti, mentre oggi il numero sta diminuendo in maniera drastica. I vertici del calcio dovrebbero dunque intervenire sul serio ed invece stanno facendo solo i loro interessi. E’ inconcepibile il fatto che ci siano delle scuole calcio che sfruttano le famiglie sotto l’aspetto economico. Sarebbe giusto prendere spunto da nazioni come la Germania e l’Inghilterra con strutture degne e adeguate”.

Alessandro Iacobelli

Foto di Matteo Ricci

 

 

 

 

 

 

Alessandro Iacobelli

Nato ad Arpino il 26 agosto 1994. Giornalista pubblicista dal 21 marzo 2016, con una grande passione per il calcio e lo sport in generale. Corrispondente dalla Ciociaria, dove segue con attenzione le realtà calcistiche regionali e provinciali del territorio. Autore di svariate interviste ed approfondimenti. Studente della facoltà di lettere - curriculum comunicazione, presso l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale.

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